Il disegno sull'albero di maestra

Intervista a: Akab

È da vent'anni, ventennio più, ventennio meno, che AkaB scandaglia i bassifondi del fumetto italiano per farne scempio, dedicarsi al vilipendio per immagini e parole, far deflagrare qualche tonnellata buona di umor nero e bile gialla.
L'intervista risale a diversi anni or sono. Era stato il suo Monarch ha spingermi all'intervista: indagare tra cernefici e vittime, Mk Ultra, sadismi trascendentali e masochismi catartici.
Oggi AkaB è altrove. In primo luogo, a presiedere i confini di Progetto Stigma, dove torneremo. Per ora, uno sguardo sul passato.

 

Subito al dunque: ritieni di aver raggiunto un segno e/o un linguaggio riconoscibile a prescindere dai media e dalle tecniche utilizzati?

Questa cosa della riconoscibilità mi è sempre sembrata una questione sopravvalutata. Mi spiego, se amo un regista sono molto contento se il suo nuovo lavoro è diverso dal precedente, se mi stupisce, se in qualche maniera, appunto, riesce a sfuggire a se stesso. Picasso, che è uno che nella vita ha detto un sacco di belle cose, dice "Faccio sempre quello che non so fare per imparare a farlo”;  mi pare sia tutto qua. Poi c'è la questione del segno. Quella è tutta una altra storia. Per come la vedo io è come la calligrafia. Ognuno ha la sua. Più scrivi più si definisce, trova una sua sintesi, un suo codice. Il disegno è uguale, ed è infinito. Credo inoltre ci sia poca cultura a riguardo e molti tendono a scambiare lo stile con la tecnica. Voglio dire che se realizzasi la stessa storia usando dei pennarelli oppure dei pennelli verrebbero due libri molto diversi. Questo perché il disegno è già narrazione, significato. Quindi non solo non mi sento di aver raggiunto nessun punto, ma neanche riesco a vederlo all'orizzonte.

Quale ritieni siano i suoi limiti, le coordinate, le migliorie apportabili, le caratteristiche che lo definiscono, e quale il nucleo suo fondante?

Del mio stile? non saprei. Se sarò fortunato tra qualche anno ci sarà qualcuno che lo spiegherà  a me. Per ora credo che non tutto debba avvenire in maniera cosciente. Lascio molto spazio al caso, all'invisibile e alla vita. Poi ti potrei annoiare dicendoti che in questi ultimi anni mi sono lasciato molto sedurre dal bianco e nero, dalla sua geometrica e monolitica aritmetica. C'è qualcosa che mi dà grande soddisfazione nel riempire i neri. Nel vedere queste figure di fil di ferro che prendono consistenza, che si bilanciano. Succede qualcosa che riguarda l'armonia. E questa cosa è esaltata proprio nel fumetto. Un’illustrazione singola vive in un equilibrio più sicuro. Più facile. Deve rendere conto solo a se stessa. Nel fumetto, quella matematica di cui vaneggio deve essere applicata alla vignetta che c'è prima e a quella dopo. E, miracolo dei miracoli, tutte insieme devono funzionare. È veramente una danza, una cazzo di danza statica e estetica.

Sul versante di quelle che percepisci come tue “mancanze”, invece, ovvero caratteristiche e inclinazioni che sai non appartenerti?

Ho amici che spesso mi dicono che produco molto. Che sono prolifico. La verità invece è che lavoro pochissimo. Tutti i giorni, questo è vero, ma non più di 3\4 ore al giorno. Più che pigro credo che il vero mestiere di un essere umano sia lavorare su se stesso, quindi il resto del tempo cerco di dedicarlo a me. Ai miei interessi (che per ragioni di tutela non rivelerò qui). Anche se posso dire che alla fine lavoro sempre, visto che tendo a raccontare nei miei libri proprio le cose di cui mi interesso. Mi sa che ho totalmente evaso la tua domanda.

Ecco si. Se mi chiedevi un difetto forse tendo troppo alla deriva. Mi piace perdermi.

Quali, di solito, i tuoi tempi di lavorazione, gli strumenti di cui non puoi fare a meno, le tecniche fondanti per il tuo stile e lavoro, i materiali favoriti o riferimenti iconografici e grafici puri e semplici a partire dai quali operi?

Allora, con il tempo è normale che anche cercando sempre di sfuggirgli uno straccio di  metodo è affiorato anche a me. Più o meno è questo: mentre sto facendo tutt'altro (tipiche situazioni sono: lavare i piatti, camminare senza metà, fare un bagno) mi vengono delle intuizioni\idee\concept che mi annoto alla brutto dio appena possibile. E le tengo lì, in una cantina nella mente, in cui di tanto in tanto butto altro materiale inerente. Finché la cantina è piena allora non faccio altro che svuotarla e mettere tutto in ordine sulla carta. Cioè la scrivo. Questa per me è una delle fasi più facili e divertenti. Spesso scrivo tutto di getto senza rendermene troppo conto. All'inizio questa forma di assenza mi sembrava qualcosa di magico. Poi ho letto dei libri sul’ipnosi e ho scoperto che non è altro che una forma di trance in cui cadiamo quando siamo molto concentrati su quello che stiamo facendo. Solo che viviamo in un contesto di continue distrazioni e quindi non ci siamo più abituati. E, infine, a distanza di alcune settimane, la disegno. E qui la questione per me è sempre diversa e infinità, come ti dicevo qualche domanda fa.

Ci sono fasi che preferisci o ti vengono più “semplici”...

Mi vien da dire "ogni cosa a suo tempo". Nel senso che ci sono giorni in cui mi sento più di lavorare alle matite, altre alla china, altre ancora al colore. Per fortuna questo è un lavoro che ti permette di variare continuamente.

o momenti in cui la frustrazione prende la mano e devi lavorarci in serie, come catena di montaggio?

Per certi lavori (soprattutto l’animazione) capita di dover fare centinaia di disegni in serie. In quel caso io la prendo come quando devi per forza fare le scale perché l'ascensore è rotto. In tutti i casi ti fa bene.

Schiele e Bacon, a volte per stile, a volte per il tocco, altre semplicemente come riferimento ideale, mi sono tornati in mente più volte, leggendo i tuoi lavori.

Non sei il primo che mi cita proprio questi due nomi e ti posso dire che, insieme ad un terzo forse meno evidente, questi due hanno in comune una cosa, che quando mi è capitato di vederli dal vivo credo di aver avuto quella roba che chiamano "sindrome di Stendhal". Cioè sono stato male. Fisicamente. Mi hanno scosso ad un livello che io stesso stentavo a credere. Il terzo che mi ha fatto letteralmente vomitare (ma in senso buono) è stato Edvard Munch. Non tanto il grido (o l'urlo) tanto quanto "la pubertà". È  un quadro dove c'è ‘sta bambina nuda seduta su un letto in una stanza in cui le luci gli fanno capire che non ci sarà nulla di buono per lei. Che non ci sarà nulla di buono per nessuno. Ecco. Evidentemente durante questi tre piccoli traumi è passato qualcosa. O almeno mi piace pensarla così.

Da partecipante, lavoratore, addetto ai lavori, osservatore interno, ritieni che le differenze di luogo, tecniche, strumenti o ambiente negli ambiti legati dall'illustrazione in senso lato e/o assoluto (fumetto, mostre ed esposizioni, illustrazione spicciola, grafica, etc) cambino anche le fondamenta del linguaggio utilizzato?

Mi sembra una domanda molto complessa. Che non sono sicuro di aver ben decifrato. Comunque credo che me la caverò dicendoti che è certo che l'ambiente influenzi l'opera così come è altrettanto certo che a quest'ora della notte risposta migliore non riesco a darti.

Pensi che il tuo lavoro possa essere il frutto dell'ambiente o che la presenza e l'etica/estetica dell'autore rimangano unificanti al di là del tempo e dello spazio?

"unificanti al di là del tempo e dello spazio" è una frase così bella che non mi sento di aggiungere altro.

E quali i singoli ambiti, correnti, gruppuscoli trovi più affini o semplicemente interessanti?

Il filone dei defunti, meglio se da centinaia di anni, è l'unico che frequento e che trovo stimolante.

Creare, disegnare, apporre su carta idee, linee e dialoghi, in fondo, aiuta?

Sicuramente. Ma forse la domanda giusta è "a chi?"

Fa sentire meglio, celebra momenti di quiete, libera da qualche tormento?

Come dopo una seduta di psicanalisi. Solo che è lo psicologo a pagare me.

Così non fosse: perché continuare?

Cioran dice “Le nostre opere, quali che siano, derivano dalla nostra incapacità di uccidere o di ucciderci” quindi è meglio continuare. Meglio per voi. Dico.

Inoltre: quali le specificità dell'illustrazione e del fumetto che ritieni particolarmente importanti, uniche o esaltanti rispetto ad altri media?

Tutti i linguaggi hanno a che fare con il tempo. È nel tempo, o meglio, nel suo modo di intenderlo e restituirlo che io colgo le maggiori specifiche. Ad esempio l'illustrazione congela. Sospende. Le buone illustrazioni infatti sono quelle che assomigliano a quei meravigliosi frame perfetti che ti capitano quando metti in pausa a caso un video. È  quell’espressione frizzata che dice tutto. Che non avresti colto se il video fosse andato avanti normalmente. Mentre il fumetto vede il tempo come attraverso il riflesso di uno specchio rotto. A frammenti. Piccoli pezzi di un unico insieme più grande. E in quei vuoti, in quelle fessure tra una scheggia e l'altra passa la vera immagine. Quella che ti fai in testa da solo. Il fumetto è un continuo accompagnarti e poi abbandonarti.

Monarch: dà l'idea di essere uno dei punti di arrivo (o intermedi) per interessi e ricerche che hai portato avanti da anni; quale la scintilla che ti ha spinto a trarne un libro finito e ben definito, e quale lo spunto al suo interno che trovi più fecondo?

È proprio così. È un libro che ho covato per molto tempo. Credo proprio come per i frutti, semplicemente dovesse arrivare al giusto punto di maturazione per potersi staccare dall'albero. Per quanto riguarda la rivelazione che più mi ha colpito durante la lavorazione è stata, che le stesse pratiche che vengono usate per trasformarti in schiavo, sono le stesse che usano gli asceti per trascendere, illuminarsi, liberarsi. Quindi mi è subito risultato chiaro che la differenza fondamentale stava nel fatto che mentre il primo non sceglieva di sottoporsi alle torture, il secondo lo faceva consapevolmente. Con coscienza. 

Hai fatto ricerche di vario tipo o genere per questo libro, o hai preferito lavorare con quanto già era nelle tue corde?

Avendolo avuto in testa per anni è normale che lo ho arricchito con tutto quello che mi sembrava potesse centrare. Quindi ho letto molto. Libri sull'ipnosi. Sulla schizofrenia. Su gli idoli delle masse e il marketing, sull'esoterismo e la massoneria ecc ecc. Poi quando si è trattato di dovermi fisicamente mettere a scriverlo un po’ per percorso personale un po’ perché sono  pazzo, mi sono sottoposto in maniera controllata e più leggera (almeno nei casi più pesanti) a ognuno dei trenta punti. Per esempio ho scritto il metodo sul cibo dopo aver digiunato 3 giorni. Quello sul sonno dopo non aver dormito per 50 ore. Quello sul LSD... vabbè. Ci siamo capiti.

Progetto/collettivo Dummy: è ancora attivo, ci sono progetti in cantiere?

Come nella peggio tv devo per forza dirti: "ti ringrazio per questa domanda." No, davvero. Mi fa moltissimo piacere poter parlare del progetto Dummy. Visto che la nostra linea è lavorare nella totale segretezza manco fossimo terroristi o rapinatori di banche. Diciamo che in comune con i banditi abbiamo il fatto di avere un nostro ritrovo\club\bar tipo quello della Magliana, ma virtuale. Dove sostanzialmente cazzeggiamo o ci scambiamo pareri su i massimi sistemi (ma più che altro cazzeggiamo). Poi da queste cose nascono (con estrema lentezza) progetti che ci coinvolgono, ma non necessariamente tutti insieme (anche perché nel frattempo si sono aggiunti altri due membri, Marco Galli e Dario Panzeri). Voglio dire che attualmente 4 di noi sono al lavoro su un nuovo libro, di cui ovviamente non posso dire nulla se non che sarà realizzato secondo una modalità per cui sarà difficile capire chi a realizzato cosa.

A distanza di tempo, cosa pensi de Le 5 fasi come lavoro collettivo e rispetto al resto del panorama?

Io lo so. Potrei e dovrei dirlo in maniera che suoni meno sbruffona, ma non ci riesco. Io penso che un libro come Le 5 fasi sia un piccolo miracolo. Che sia da considerarsi fuori da ogni panorama. Questo genere di libri sono come il titolo dell'ultimo film di Monicelli. Rose del deserto. Ma è chiaro che il mio giudizio non conti nulla e sia totalmente falsato dal fatto che ci sia dentro. E che sia uno sbruffone.

Bonelli/DDog: quale pensi sia stato il meccanismo che ha fatto sì la Bonelli decidesse di mettersi in gioco in questo modo; pensi l'intervento di Recchioni sia stano fondamentale o la casa editrice sia anche venuta semplicemente a patti con, uhm, la contemporaneità?

Credo entrambe le cose. Onestamente mi ha molto sorpreso che Roberto mi chiamasse a lavorare su Dylan. Sia perché mi sentivo troppo "estremo" rispetto alle cose che vedevo alla Bonelli, sia perché in passato ci sono state svariate occasioni in cui non ci siamo certo dimostrati affetto. Per quanto riguarda la contemporaneità spero di non rappresentarla in nessuna maniera avendo, come detto precedentemente, un legame più forte con il lontano passato che con l'immediato presente. Presente che trovo per troppi aspetti avvilente. Ma sia chiaro la mia non è nostalgia. È solo buon gusto.

Quanti ribaltamenti semantici e narrativi, quanta la libertà che avrai in mano; pensi ci siano concretamente le possibilità per rinnovare il fumetto italiano a partire da quello popolare?

Anche questa è una domanda difficile che meriterebbe una lunga e articolata risposta. Anche per evitare sintesi fraintendibili. Cosa posso dire. Ci  è stato imposto di rispettare solamente la gabbia a tre strisce. Per il resto massima libertà. Libertà di cui non ho approfittato per fare stravaganti stravolgimenti fini a se stessi. Ma ho cercato semplicemente di fare quella che per me potrebbe essere una buona storia di un personaggio che con tutto l'affetto possibile considero morto e sepolto.

Quindi per rispondere alla tua domanda credo che ci sarà davvero la possibilità di rinnovare qualcosa quando ci sarà data la possibilità di cucinare le nostre portate e non riscaldare le loro.

Un consiglio di lettura per un'opera che abbia un segno in grado di piantarsi come strobo nella testa dell'eventuale lettore. A prescindere dal campo, dalle tecniche e da quasi ogni altra cosa.

Uno dei libri letti di recente che mi sono davvero piaciuti e I tre cristi praticamente sono i veri resoconti medici di questo assurdo esperimento, fatto sul finire degli anni 50, in cui hanno per la prima volta studiato e messo a confronto tre persone convinte di essere Gesù Cristo. Ancora una volta l'argomento centrale è su chi realmente siamo e sulla illusione di chi vorremo essere.

©Daniele Ferriero